condivido di seguito il testo del mio intervento questa mattina a Grancona.
Commemorazione
dei sette martiri di Grancona
9 giugno 2019
Un
saluto cordiale ai rappresentanti delle Istituzioni, al sindaco di Val Liona e
agli amici di Prato e di Pessano con Bornago in particolare, alle
rappresentanze delle associazioni partigiane e combattentistiche, alle cittadine
e ai cittadini presenti. Con emozione e con senso di responsabilità prendo la
parola per commemorare con voi i sette martiri di Grancona.
Commemorare
– letteralmente fare memoria assieme – è parola e pratica antica, profondamente
umana, eppure, al contempo, è un’azione che proietta l’uomo oltre la finitezza
della sua natura di singolo, in una dimensione di comunità e di continuità
fra le generazioni, oltre il luogo e il tempo.
Oggi,
dunque, siamo a fare memoria, di un evento tragico, ma soprattutto, di sette
giovani, i “sette martiri” di Grancona, morti per la violenza nazifascista la
sera dell’8 giugno 1944. Anche ‘martire’, che in origine, nell’antica Grecia,
significava ‘testimone’, è parola antica. Entrata nella nostra lingua con il
cristianesimo, ad identificare il fedele che, consapevole di perdere la vita,
non accetta tuttavia di rinnegare la propria fede divenendo perciò testimone per
gli altri di ciò in cui crede, la parola ha abbracciato l’ambito politico e
civile, definendo la condizione di chi lotta fino alla vita per un ideale. E
nella nostra provincia vicentina quanti sono i martiri della libertà nella
lotta al nazifascismo!
Ripetiamo
allora ancora una volta i nomi dei “sette martiri” di Grancona: Raffaele
Bertesina, classe 1917, sposato e padre di una bambina; Silvio Bertoldo, classe
1920; Attilio Mattiello, classe 1920; Guerrino Rossi, classe 1919; Ermenegildo
Sartori, classe 1918; Mario Spoladore, classe 1922; Ernesto Zanellato, classe
1917.
Figli
di queste valli, operai, artigiani o contadini, andarono ignari incontro alla
morte in questo luogo di preghiera e di devozione immerso nella natura, che
tutto ci sembra rivelare fuorché inganno, violenza, orrore e morte.
Come
ha raccontato il compianto Giuseppe Sartori, fratello di Ermenegildo, scampato
quasi per caso all’eccidio, e come appurato dalle ricerche, i sette caddero per
mano di un gruppo di sedicenti partigiani, in realtà militi della Repubblica
Sociale Italiana, nel tentativo, operato dai fascisti, di sgominare i primi
nuclei di Resistenza operanti nei colli Berici a partire dalla primavera del
1944.
Il
movimento partigiano è in questo periodo in fase di strutturazione. I fascisti,
subdolamente, tendono la loro trappola; stabiliscono la riunione coi giovani
del luogo – una trentina in tutto – per la sera dell'8 giugno, festa del
Corpus Domini: hanno promesso armi, equipaggiamenti e il trasferimento dei
giovani dei Berici sulle montagne vicentine, dove già operano le formazioni
partigiane.
Poche
ore prima dell’agguato, però, si diffonde la voce che si tratti di una
trappola. Un civile, Alberto Peruffo “Usche”, ascolta per caso in treno la
conversazione di un gruppo di fascisti che si vantano per quello che stanno per
compiere; sceso, corre in paese ad avvertire che si tratta di un tranello, ma
ci riesce solo in parte. Saranno in sette a presentarsi: i nostri sette
martiri. Caduti nella trappola, dapprima sono costretti a giurare la loro fede
partigiana, poi, all’interno dell’oratorio, vengono torturati per oltre un’ora.
Infine, alle 23 circa, sono trascinati oltre la strada, dove vengono finiti a
raffiche di mitra. Fra essi resta vivo Silvio Bertoldo, che, trasportato
all’ospedale di Montecchio Maggiore, morirà il giorno seguente.
La
notizia dell’accaduto si sparge in un baleno: accorrono i famigliari, i parenti,
gli amici. Il dolore è indicibile e ad esso si aggiunge la paura di nuove
rappresaglie. Questo accadeva settantacinque anni fa.
Ma
oggi che cosa ci dicono queste sette vite troncate? Qual è il significato del
nostro fare memoria? Torniamo per un momento a riflettere su chi erano i sette
martiri. A differenza dei loro aguzzini fascisti, inquadrati in compagnie e
battaglioni della morte, che sfoggiavano orgogliosamente teschi, pugnali e
altri simboli di violenza, i sette erano giovani con la vita nel cuore,
desiderosi di vivere in pace, senza più guerre o dittature. Questo li aveva
portati, dopo l’8 settembre, prima a nascondersi ai bandi di arruolamento della
Repubblica Sociale e poi ad organizzarsi per dare il loro contributo alla causa
della libertà. Insieme avevano eletto il più esperto fra loro di questioni
militari, Raffaele Bertesina, ex combattente nei Balcani, quale comandante
della nascente formazione. Nessuno di loro aveva compiuto studi di alto
livello, nessuno di loro aveva mai vissuto una vita in democrazia, erano
cresciuti tutti sotto il pensiero unico fascista, quel “credere, obbedire e
combattere” che aveva imposto per vent’anni il culto del capo, della volontà
ferrea, del nazionalismo esasperato, del militarismo, della violenza.
Per
questo, ogni volta che rifletto sulla scelta di chi, dopo l’8 settembre 1943,
scelse di stare dalla parte giusta, quella della libertà, non riesco a non
stupirmi. C’era stata la guerra, è vero, ad aprire gli occhi agli italiani
sulla vera natura del fascismo, una guerra che, come ebbe a dire Mario Rigoni
Stern, era sempre «di aggressione» e di «offesa agli altri» e prima, durante la
dittatura, c’erano stati tanti piccoli gesti di resistenza; c’era nel vicentino
l’opera di un vescovo., Mons. Rodolfi, che in più occasioni aveva apertamente
osteggiato il regime. E tuttavia ciò non è sufficiente a spiegare la scelta del
tutto controcorrente di questi giovani.
Questo
dovrebbe dirci molto oggi, in cui sentiamo sempre più spesso riaffiorare urla e
slogan che pretendono di collocare alcuni “prima di altri”: “prima gli Stati
Uniti” si urla oltre oceano, “prima i polacchi” urlava un gruppo di
nazionalisti davanti ai cancelli di Auschwitz lo scorso 27 gennaio,
dimenticando che furono decine e decine di migliaia i polacchi che persero la
vita all’interno del campo. Anche in Italia questo slogan risuona sempre più
spesso: ma cosa significa esso alla fine, se non “prima io”? Prima i miei
diritti, i miei interessi, dopo gli altri!
Cosa
direbbero i sette martiri a sentirci ripetere queste parole oggi? Loro che
decisero di rischiare la vita per salvare, assieme alla propria, quella degli
altri, cosa risponderebbero?
Dicevo
all’inizio che il commemorare proietta l’uomo oltre la finitezza della sua
natura di singolo, in una dimensione di comunità e di continuità fra
le generazioni, oltre il luogo e il tempo. È questo allora il senso
profondo del nostro ritrovarci oggi. Perché, consapevoli di cosa è stato, della
scelta dei sette martiri, all’oggi deve essere rivolto il nostro sguardo.
Il
nazifascismo è stato sconfitto militarmente nel 1945, lo sappiamo; ma i semi
dell’odio, dell’intolleranza, del nazionalismo, del razzismo, di chi pretende di
creare e fomentare le disuguaglianze fra i cittadini sono purtroppo sempre
presenti e oggi, complici l’insicurezza e la paura, reali o percepite, la crisi
economica, la globalizzazione, trovano terreno in cui attecchire. Scriveva
Primo Levi nel 1986:
«La violenza […] è sotto i nostri occhi:
serpeggia, in episodi saltuari e privati, o come illegalità di stato […].
Attende solo il nuovo istrione (non mancano i candidati) che la organizzi, la
legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo. Pochi paesi
possono essere garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da
intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo
religioso o politico, da attriti razziali. Occorre quindi affinare i nostri
sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli che dicono e
scrivono “belle parole” non sostenute da buone ragioni».
Possiamo
chiederci come fare ad «affinare i nostri sensi», per onorare davvero i
combattenti della libertà. Non ci sono risposte univoche ma, credo, un modo è
proprio quello di ritrovarci insieme per fare memoria, visitando i luoghi della
Resistenza, portando, come fa l’ANPI di Grancona, i ragazzi e i giovani in
questo e in altri luoghi che conservano la nostra storia, il cammino segnato di
sofferenze e lutti che ci ha condotto alla libertà e alla pace, alla Repubblica
e alla Costituzione.
Un
secondo modo è quello di tornare, anche attraverso i luoghi, a studiare la
storia, a non fermarci al sentito dire, ad approfondire le questioni. Più si
allontana da noi il tempo dei fatti, più si assottigliano i testimoni diretti e
più abbiamo la necessità, come cittadini e come uomini, di tornare a
comprendere, attraverso lo studio, quanto avvenuto nel secolo da poco concluso.
Sono rimasto colpito da un episodio
accadutomi pochi mesi fa, al termine di una lezione sulla Shoah ad un gruppo di
adulti. Un signore anziano mi ha atteso al termine dell’incontro chiedendomi
informazioni sul fascismo, dicendo: “Sa, io ho vissuto la dittatura, ero
balilla, ma a parte le sfilate e la paura dei bombardamenti mi ricordo poco.
Ora mi dicono alla televisione che il fascismo ha fatto anche tante cose
buone”.
A
questo siamo giunti! Non solo si tenta di parificare chi combatteva per
perpetuare la dittatura con chi rischiava la vita per la libertà, ma, complice
l’ignoranza di politici e pubblici intrattenitori, si diffondono errori, inesattezze,
confusione quando non, addirittura, falsità e discredito. Studiare, dunque,
senza timore, anche riportando alla luce errori che possono essere stati
commessi da singoli partigiani o in singoli fatti. Perché nessun singolo
episodio potrà mai confondere una verità inequivocabile: che da una parte si
combatteva per un ideale umano, di
libertà, di giustizia, di democrazia, di solidarietà e di pace; dall’altra si
voleva perpetuare un mondo fondato sulla disuguaglianza, sulla violenza,
sull’odio e sull’eliminazione dell’avversario o, semplicemente, del diverso, di
chi, come ha ribadito più volte la senatrice a vita Liliana Segre, aveva come
unica colpa quella di essere nato.
Il fascismo, ispiratore del nazismo, non fu affatto un
regime bonario, fu una dittatura e, prima ancora, un movimento politico basato
sulla violenza come arma per imporsi sugli avversari.
Scriveva nel 1954 il padre costituente Piero
Calamandrei:
«Ciò che soprattutto va
messo in evidenza del fascismo è […] il significato morale: l’insulto
sistematico, adoprato come metodo di governo, alla dignità morale dell’uomo,
l’umiliazione brutale, ostentata come una gesta da tramandare ai posteri,
dell’uomo degradato a cosa. […] Nel macabro cerimoniale in cui gli incamiciati
di nero, preceduti dai loro osceni gagliardetti, andavano solennemente a
spezzare i denti ai sovversivi o a verniciargli la barba o a somministrargli,
tra sconce risa, la purga ammonitrice, c’era già, ostentata come un programma
di dominio, la negazione della persona umana. […] Il ventennio fascista –
conclude Calamandrei – non fu, come oggi qualche sciagurato immemore figura di
credere, un ventennio di ordine e di grandezza nazionale: fu un ventennio di
sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffocazione
quotidiana, di sorda e sotterranea disgregazione civile».
Dobbiamo
pertanto ripartire da qui, tornando a studiare la storia del fascismo e,
soprattutto, di chi, come i sette martiri, vi si oppose. E solo nel vicentino
quanti esempi! Le loro storie devono diventare le nostre storie, quelle dei
ragazzi e dei giovani, i quali, come disse il grande presidente Sandro Pertini,
«non hanno bisogno di sermoni,
[…] hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo».
Dalla Resistenza al nazifascismo sono nel dopoguerra
nati frutti preziosi, che ci hanno dato settantaquattro anni di pace: la Repubblica,
la Costituzione, che, frutto di tutti i partiti che avevano lottato contro il
nazifascismo, è profondamente antifascista; ma anche, a livello europeo, l’idea
di un continente unito, in pace. Oggi più che mai studiare, approfondire è
dunque necessario se vogliamo tornare all’idea che sta alla base dell’Italia e
dell’Europa.
Mi sembra di scorgere, infine, un ultimo modo di
onorare con la nostra vita quotidiana il gesto di quanti, come i sette martiri,
diedero la vita per la nostra libertà: tornando, cioè, al senso della misura,
soppesando i gesti quotidiani e soprattutto le parole. Spesso dimentichiamo che
i totalitarismi del Novecento si imposero anche, se non soprattutto, attraverso
la parola: agivano sulle parole, censurando quelle proibite e sovente violentando
il significato di quelle concesse. Tutti ricorderemo che l’eliminazione degli
ebrei non veniva chiamata col suo nome dai nazifascisti, ma indicata sotto la
generica, vaga espressione di «Soluzione
finale». E
così per parole come ‘onore’, patria’, ‘fede’, ‘libertà’, infangate e snaturate
dal nazifascismo.
Oggi vediamo riaffiorare nazionalismi, intolleranza,
odio anche attraverso parole che incitano allo scontro continuo, attraverso
un’ironia che non fa ridere ma vuole offendere e denigrare, attraverso gesti ed
espressioni che ci ricordano tempi bui che non vogliamo far ritornare.
«Va ricordato che, in ogni
ambito, libertà e democrazia non sono compatibili con chi alimenta i conflitti,
con chi punta a creare opposizioni dissennate fra le identità, con chi fomenta
scontri, con la continua ricerca di un nemico da individuare, con chi limita il
pluralismo»
ha ribadito il presidente della Repubblica Sergio
Mattarella lo scorso 2 giugno. Alle sue parole, monito per l’oggi, vorrei
associare le parole di una celebre canzone scritta da Italo Calvino, partigiano
in Piemonte. Essa ci rivela tutta la speranza che animava i nostri partigiani,
uomini e donne:
Avevamo vent’anni e oltre il ponte
oltre il ponte ch’è in mano nemica
vedevamo l’altra riva, la vita
tutto il bene del mondo oltre il ponte.
Tutto il male avevamo di fronte
tutto il bene avevamo nel cuore
a vent’anni la vita è oltre il ponte
oltre il fuoco comincia l’amore. […]
La speranza era nostra compagna
ad assaltar caposaldi nemici
conquistandoci l'armi in battaglia
scalzi e laceri eppure felici.
ad assaltar caposaldi nemici
conquistandoci l'armi in battaglia
scalzi e laceri eppure felici.
Raffaele,
Silvio, Attilio, Guerrino, Ermenegildo, Mario, Ernesto e con loro tutti i partigiani e le partigiane, i patrioti e le patriote
volevano una vita in pace, un mondo bello, felice, inclusivo e accogliente, e combattevano
perché nessuno dovesse più riprendere in mano le armi, per donare la libertà a
se stessi e a noi. Ricordiamocene e onoriamoli oggi e ogni giorno, con la
nostra vita, i nostri gesti, le nostre scelte.
Viva l’Italia libera, Viva la Costituzione, Viva La
Resistenza!
Michele Santuliana