condivido l'incipit di un mio articolo pubblicato per la rivista "Figure". Al link che segue troverete l'articolo completo.
Anno scolastico 2017-2018. Una mattina come tante in un istituto professionale del vicentino. Mentre mi dirigo verso la sala insegnanti, incrocio uno studente di quinta dell’indirizzo meccanico. È un ragazzotto alto, atletico; tatuaggio sul collo, orecchino che penzola all’orecchio sinistro e addosso un maglione aderente che lascia intravedere i muscoli. Lo saluto guardandolo negli occhi e lui risponde prontamente.
- Be’? - gli chiedo poi - come mai non siamo in classe?
Abbozza un sorriso di sfida.
- Son ’ndà in bagno, desso vo in classe.
Io pure rispondo con un sorriso. Poi gli domando:
- Perché mi hai risposto in dialetto?
Lui sostiene il mio sguardo, è sveglio e capisce al volo l’intenzione del prof che ha davanti. E subito mi risponde per le rime.
- Come parché? Parché la zè la me lengua.
Parché la zè la me lengua. Ecco, vorrei partire da qui. Perché è vero: nella mia regione il dialetto è ancora la lingua ufficiale delle comunicazioni quotidiane. I dati dell’ultimo rapporto ISTAT (dicembre 2017) confermano che il Veneto rimane, tra le regioni del nord, quella in cui il dialetto è più utilizzato in famiglia (62%). Ma non solo: il dialetto è fondamentale nelle situazioni più comuni, dal dialogo con il negoziante di quartiere a quello con il benzinaio fino ad arrivare alle ciàcole tra colleghi in sala insegnanti, non solo con i veneti, anche con i foresti.
Qui vorrei però riflettere non sull’uso quotidiano di una categoria indistinta di parlanti, bensì su quello che ne fanno i giovani e sulla loro percezione del dialetto, in particolare i giovani che l’anno scorso, nel mio anno di prova, ho avuto modo di osservare e ascoltare in un istituto professionale dell’ovest vicentino. La risposta del nostro studente dà infatti, a mio avviso, significativi indizi su un fenomeno che coinvolge una parte dei giovani della mia regione.