come alcuni di voi sanno, l'impegno per la memoria e per la trasmissione dei valori di libertà, giustizia e democrazia mi vede da anni impegnato nell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia. Ieri mattina a Pojana Maggiore (Vi), ho avuto l'onore di rappresentare il Comitato provinciale dell'ANPI in occasione della commemorazione dei sette martiri fucilati dai nazifascisti il 15 ottobre 1944. Pubblico di seguito il testo dell'orazione che ho pronunciato, rivolta in particolare ai ragazzi delle scuole primaria e secondaria di primo grado presenti alla cerimonia.
Signor Sindaco e rappresentanti delle Istituzioni, cittadini, colleghi insegnanti ma soprattutto ragazze e ragazzi delle scuole, saluto tutti voi con affetto e porto i saluti dell’ANPI provinciale.
Un saluto speciale e un ringraziamento anche al maestro Efren Diani, memoria vivente dell’evento e delle persone che oggi siamo a commemorare.
È con emozione che vi parlo oggi, di fronte a questo monumento alla memoria dei vostri e nostri sette martiri. Qualche giorno fa riflettevo su questa parola – ‘martiri’ – e mi sono stupito a pensare quanto spesso essa risuoni nella nostra provincia, a ricordare le vittime della ferocia nazifascista. Cito solo alcuni esempi che mi sono venuti in mente. A Valdagno c’è un monumento “ai sette martiri”, a Vicenza “ai dieci martiri” e anche nella mia città, Montecchio Maggiore, ci sono quattro martiri, uccisi nel 1944, che ogni anno vengono ricordati e celebrati. Ma si potrebbe continuare… Riflettiamo un istante sulle parole perché molto ci possono dire sul motivo per cui oggi ci troviamo qui.
Martire è una parola antica: deriva dal greco e significa ‘testimone’. Usata nell’antica Grecia in ambito giuridico per designare i testimoni nei tribunali, col Cristianesimo il suo significato si trasformò in parte, venendo a significare il fedele che, consapevole di perdere la vita, non accetta di rinnegare la propria fede. Diviene perciò testimone della propria fede e del proprio ideale. Con questo significato la parola ‘martire’ è giunta fino a noi, abbracciando ancora l’ambito civile oltre che religioso: sì, perché non solo per un ideale religioso si può dare la vita, ma anche per un ideale umano, di libertà, di giustizia, di democrazia e di pace. Per questo siamo qui oggi a fare memoria insieme, a commemorare, appunto, questi sette uomini: sei partigiani e un civile fucilati per rappresaglia dai nazifascisti la mattina del 15 ottobre 1944.
Ricordiamo sin d’ora i loro nomi: Renzo Bellon (partigiano di anni 30), Enrico Bressan (partigiano di anni 20), Ettore Dal Pra’ (partigiano di 22 anni non ancora compiuti), Alessandro Dovigo (partigiano di anni 19), Emilio Pivato (partigiano di anni 27), Piero Salamon (partigiano di anni 23) e Antonio Pastorelli (civile, di professione bovaro, di anni 64). I sei partigiani, tutti appartenenti alla brigata “Pierobon”, erano originari di questo territorio, figli e figlie di queste contrade e questi paesi. Giovani, alcuni di loro giovanissimi, erano entrati nelle formazioni partigiane a seguito dell’8 settembre, una data importante, di cui tornerò fra poco a parlare. Furono imprigionati dai nazifascisti dopo che un loro compagno della pattuglia detta “Visela”, catturato e torturato, aveva fatto i loro nomi. Antonio Pastorelli venne invece arrestato in quanto lavoratore nella cascina che ospitava la pattuglia “Visela”. Tutti indistintamente vennero trattenuti in carcere finché, a seguito di uno scontro a fuoco fra la pattuglia “Visela” e i nazifascisti, avvenuto nella notte di venerdì 13 ottobre, vennero fucilati perché si spargesse il terrore nella zona.
Questi erano i metodi dell’invasore tedesco e dei fascisti che lo spalleggiavano. Sul manifesto che seguì l’esecuzione questi uomini vennero definiti “banditi”, cioè fuori legge. Ma le persone di Pojana e di Noventa sapevano che non lo erano. Lo erano per le leggi imposte con la forza dai tedeschi ai paesi occupati. In realtà erano uomini che, seppur giovani, avevano scelto da che parte stare: la parte della libertà, della giustizia, della pace, del rispetto, ed erano pronti per questi ideali ad affrontare il rischio più alto, quello della vita. Avevano impugnato le armi per riportare la pace, per scacciare l’invasore e chi lo appoggiava, perché dopo di loro non ci fosse più nessun altro che avesse dovuto usare la violenza. Avevano scelto di combattere per una nuova patria, un’Italia libera e democratica, loro che nella libertà non avevano fino a quel momento vissuto. Per questo incontrarono la morte.
Ma come si era giunti ad avere in Italia un invasore e una situazione di violenza tanto grave?
Oggi noi conosciamo la guerra solo per le immagini viste in televisione o su internet: basta connettersi a youtube o ad un altro social network per vedere, comodamente seduti in poltrona, scene terribili; voi ragazzi, poi, “conoscete”, per così dire, la guerra dai videogiochi: si spara, ci si diverte e se si muore poi c’è un’altra partita da poter giocare. Ma settantatré anni fa in Italia, nel Vicentino, qui a Pojana, non era così: non c’erano smartphone né tablet né social network; c’era a stento il cibo, ma soprattutto non c’era la libertà. Di contro c’era una guerra vera, una guerra scatenata per le assurde mire di conquista di due ideologie folli: il nazismo tedesco e il fascismo italiano, che del primo movimento era stato ispirazione e modello. Erano ideologie che predicavano la disparità di diritti fra le persone, la violenza come strumento di affermazione politica e di dominio, la sopraffazione come pratica di potere; predicavano infine l’esistenza di razze e l’illogica pretesa che fra esse alcune fossero superiori e altre inferiori. Chi era superiore poteva dominare, distruggere, uccidere, rubare, occupare. Su questo principio assurdo e fuori da ogni logica umana, fascismo e nazismo scatenarono guerre di aggressione e sterminarono milioni di persone inermi, ritenute indegne di vivere.
Con la Seconda guerra mondiale, scatenata dalla Germania di Hitler, anche il nostro paese si trovò coinvolto nel peggiore conflitto mai combattuto. Dal 1940 al 1943 Mussolini, dittatore e duce del fascismo, inviò giovani a morire contro la Francia, la Gran Bretagna, la Grecia, la Russia. Paesi che non avevano dichiarato guerra all’Italia, paesi che l’Italia aggredì. La guerra, disastrosa per il nostro paese, portò alla caduta del regime fascista, che per vent’anni aveva oppresso la libertà in Italia: il 25 luglio 1943 il regime crollò e il governo italiano si affettò a chiedere un armistizio agli alleati ango-americani. La richiesta venne accolta. Si giunse così all’8 settembre, la data storica in cui molti pensavano che la guerra sarebbe finita. Si sbagliavano: il conflitto durò ancora un anno e mezzo e divenne lotta di Liberazione contro i tedeschi, che per rappresaglia avevano invaso l’Italia, e guerra civile, che vide contrapposti italiani contro italiani: da una parte i partigiani, che avevano scelto la strada della libertà, dall’altra i fascisti, che avevano scelto ancora la via dell’odio, della violenza gratuita e della sopraffazione a fianco dei nazisti. Si combatté in Italia e anche fuori, come testimoniano gli oltre 600.000 militari italiani internati in Germania dei quali la grande maggioranza preferì restare in lager piuttosto che arruolarsi con i fascisti e i nazisti. È la scelta che fece il vostro compaesano Giuseppe Zanotto, catturato dai tedeschi e resistente anche lui dietro i fili spinati di un campo di concentramento per prigionieri italiani. Lo avete commemorato pochi giorni fa, riportandone le spoglie in patria. Come ha detto Mario Rigoni Stern, anche quella fu Resistenza, quella di chi disse “No” al fascismo, a costo rimanere dietro i fili spinati e, come fu per Giuseppe, di pagare con la vita.
La lotta fu terribile anche in Italia e investì la nostra provincia: portò lutti, dolore, distruzione e miseria. Solo nella primavera del 1945, con l’avanzata degli Alleati nella pianura padana e la riscossa dei partigiani, che liberarono le città del nord, arrivò finalmente il giorno della Liberazione. Quel giorno le persone festeggiarono per strada, nelle piazze, si abbracciarono felici per la fine di un incubo. Da quel giorno iniziò un percorso nuovo per l’Italia, un cammino che l’avrebbe portata, il 2 giugno 1946, a scegliere la Repubblica come forma di governo e a darsi una Costituzione. Entrata in vigore il 1 gennaio 1948 (fra pochi mesi saranno settant’anni), la Costituzione è il frutto della collaborazione fra tutti i partiti antifascisti che avevano preso parte alla Resistenza. È un documento importantissimo, che tutti dovremmo conoscere, amare e difendere, specie i suoi primi dodici articoli. È grazie allo Costituzione se oggi noi possiamo esprimere liberamente il nostro pensiero, se, dunque, possiamo essere qui.
Tuttavia, oggi che, per citare Primo Levi, viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, oggi che abbiamo un pasto caldo, oggi che siamo circondati da visi amici e che viviamo in pace, non possiamo dimenticare chi ha dato la vita per dare a noi tutto ciò. La libertà e la democrazia non sono conquiste perenni, ragazzi. Guardiamoci intorno: viviamo in tempi in cui riemergono sempre più forti idee e comportamenti di odio, di intolleranza, di rifiuto dell’altro perché straniero o perché diverso, per molti motivi. Pensiamo alle nostre vite quotidiane: l’arroganza al lavoro, il bullismo a scuola, la furbizia di chi imbroglia gli altri o lo Stato, la voce di chi grida “prima noi” o cose simili, il razzismo e l’odio contro chi è costretto a lasciare il proprio paese perché vittima della guerra o della miseria sono come un tarlo che divora a poco a poco la democrazia. E noi non possiamo permetterlo, come non possiamo permettere che vi sia chi ancora propone di riabilitare una dittatura feroce e liberticida com’è stato il fascismo. Spetta a ciascuno di noi vivere e attuare i principi di libertà, giustizia, uguaglianza, pace e rispetto sanciti dalla Costituzione nata dalla Resistenza. Solo così la nostra Italia sarà una nazione matura, responsabile e accogliente verso tutti.
Come ha scritto Mario Rigoni Stern, oggi «non è il tempo di riprendere in mano un’arma ma di non disarmare il cervello sì, e l’arma della ragione è più difficile da usare che non la violenza». Tocca a noi adulti e, ancor più, a voi ragazzi vigilare: innanzitutto conoscendo la storia, meditando che questo è veramente stato; in secondo luogo vivendo nel quotidiano i valori della Resistenza sanciti nella Costituzione; in terzo luogo analizzando le parole, proprie ed altrui, non fidandoci di chi ancora propone falsi valori permeati di razzismo, di divisione, di odio. Ne va del nostro futuro, e lo dobbiamo a loro: a Renzo, Enrico, Ettore, Alessandro, Emilio, Piero, Antonio e a tutti i partigiani e le partigiane che settantaquattro anni fa scelsero. E scelsero la parte giusta.
Viva la Resistenza, viva l’Italia libera, viva la Costituzione!