domenica 15 ottobre 2017

Ricordando i sette martiri di Pojana Maggiore - sabato 14 ottobre 2017

Cari amici lettori,
come alcuni di voi sanno, l'impegno per la memoria e per la trasmissione dei valori di libertà, giustizia e democrazia mi vede da anni impegnato nell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia. Ieri mattina a Pojana Maggiore (Vi), ho avuto l'onore di rappresentare il Comitato provinciale dell'ANPI in occasione della commemorazione dei sette martiri fucilati dai nazifascisti il 15 ottobre 1944. Pubblico di seguito il testo dell'orazione che ho pronunciato, rivolta in particolare ai ragazzi delle scuole primaria e secondaria di primo grado presenti alla cerimonia.


Signor Sindaco e rappresentanti delle Istituzioni, cittadini, colleghi insegnanti ma soprattutto ragazze e ragazzi delle scuole, saluto tutti voi con affetto e porto i saluti dell’ANPI provinciale.

Un saluto speciale e un ringraziamento anche al maestro Efren Diani, memoria vivente dell’evento e delle persone che oggi siamo a commemorare.

È con emozione che vi parlo oggi, di fronte a questo monumento alla memoria dei vostri e nostri sette martiri. Qualche giorno fa riflettevo su questa parola – ‘martiri’ – e mi sono stupito a pensare quanto spesso essa risuoni nella nostra provincia, a ricordare le vittime della ferocia nazifascista. Cito solo alcuni esempi che mi sono venuti in mente. A Valdagno c’è un monumento “ai sette martiri”, a Vicenza “ai dieci martiri” e anche nella mia città, Montecchio Maggiore, ci sono quattro martiri, uccisi nel 1944, che ogni anno vengono ricordati e celebrati. Ma si potrebbe continuare… Riflettiamo un istante sulle parole perché molto ci possono dire sul motivo per cui oggi ci troviamo qui. 

Martire è una parola antica: deriva dal greco e significa ‘testimone’. Usata nell’antica Grecia in ambito giuridico per designare i testimoni nei tribunali, col Cristianesimo il suo significato si trasformò in parte, venendo a significare il fedele che, consapevole di perdere la vita, non accetta di rinnegare la propria fede. Diviene perciò testimone della propria fede e del proprio ideale. Con questo significato la parola ‘martire’ è giunta fino a noi, abbracciando ancora l’ambito civile oltre che religioso: sì, perché non solo per un ideale religioso si può dare la vita, ma anche per un ideale umano, di libertà, di giustizia, di democrazia e di pace. Per questo siamo qui oggi a fare memoria insieme, a commemorare, appunto, questi sette uomini: sei partigiani e un civile fucilati per rappresaglia dai nazifascisti la mattina del 15 ottobre 1944.

Ricordiamo sin d’ora i loro nomi: Renzo Bellon (partigiano di anni 30), Enrico Bressan (partigiano di anni 20), Ettore Dal Pra’ (partigiano di 22 anni non ancora compiuti), Alessandro Dovigo (partigiano di anni 19), Emilio Pivato (partigiano di anni 27), Piero Salamon (partigiano di anni 23) e Antonio Pastorelli (civile, di professione bovaro, di anni 64). I sei partigiani, tutti appartenenti alla brigata “Pierobon”, erano originari di questo territorio, figli e figlie di queste contrade e questi paesi. Giovani, alcuni di loro giovanissimi, erano entrati nelle formazioni partigiane a seguito dell’8 settembre, una data importante, di cui tornerò fra poco a parlare. Furono imprigionati dai nazifascisti dopo che un loro compagno della pattuglia detta “Visela”, catturato e torturato, aveva fatto i loro nomi. Antonio Pastorelli venne invece arrestato in quanto lavoratore nella cascina che ospitava la pattuglia “Visela”. Tutti indistintamente vennero trattenuti in carcere finché, a seguito di uno scontro a fuoco fra la pattuglia “Visela” e i nazifascisti, avvenuto nella notte di venerdì 13 ottobre, vennero fucilati perché si spargesse il terrore nella zona.

Questi erano i metodi dell’invasore tedesco e dei fascisti che lo spalleggiavano. Sul manifesto che seguì l’esecuzione questi uomini vennero definiti “banditi”, cioè fuori legge. Ma le persone di Pojana e di Noventa sapevano che non lo erano. Lo erano per le leggi imposte con la forza dai tedeschi ai paesi occupati. In realtà erano uomini che, seppur giovani, avevano scelto da che parte stare: la parte della libertà, della giustizia, della pace, del rispetto, ed erano pronti per questi ideali ad affrontare il rischio più alto, quello della vita. Avevano impugnato le armi per riportare la pace, per scacciare l’invasore e chi lo appoggiava, perché dopo di loro non ci fosse più nessun altro che avesse dovuto usare la violenza. Avevano scelto di combattere per una nuova patria, un’Italia libera e democratica, loro che nella libertà non avevano fino a quel momento vissuto. Per questo incontrarono la morte. 

Ma come si era giunti ad avere in Italia un invasore e una situazione di violenza tanto grave?

Oggi noi conosciamo la guerra solo per le immagini viste in televisione o su internet: basta connettersi a youtube o ad un altro social network per vedere, comodamente seduti in poltrona, scene terribili; voi ragazzi, poi, “conoscete”, per così dire, la guerra dai videogiochi: si spara, ci si diverte e se si muore poi c’è un’altra partita da poter giocare. Ma settantatré anni fa in Italia, nel Vicentino, qui a Pojana, non era così: non c’erano smartphone né tablet né social network; c’era a stento il cibo, ma soprattutto non c’era la libertà. Di contro c’era una guerra vera, una guerra scatenata per le assurde mire di conquista di due ideologie folli: il nazismo tedesco e il fascismo italiano, che del primo movimento era stato ispirazione e modello. Erano ideologie che predicavano la disparità di diritti fra le persone, la violenza come strumento di affermazione politica e di dominio, la sopraffazione come pratica di potere; predicavano infine l’esistenza di razze e l’illogica pretesa che fra esse alcune fossero superiori e altre inferiori. Chi era superiore poteva dominare, distruggere, uccidere, rubare, occupare. Su questo principio assurdo e fuori da ogni logica umana, fascismo e nazismo scatenarono guerre di aggressione e sterminarono milioni di persone inermi, ritenute indegne di vivere.

Con la Seconda guerra mondiale, scatenata dalla Germania di Hitler, anche il nostro paese si trovò coinvolto nel peggiore conflitto mai combattuto. Dal 1940 al 1943 Mussolini, dittatore e duce del fascismo, inviò giovani a morire contro la Francia, la Gran Bretagna, la Grecia, la Russia. Paesi che non avevano dichiarato guerra all’Italia, paesi che l’Italia aggredì. La guerra, disastrosa per il nostro paese, portò alla caduta del regime fascista, che per vent’anni aveva oppresso la libertà in Italia: il 25 luglio 1943 il regime crollò e il governo italiano si affettò a chiedere un armistizio agli alleati ango-americani. La richiesta venne accolta. Si giunse così all’8 settembre, la data storica in cui molti pensavano che la guerra sarebbe finita. Si sbagliavano: il conflitto durò ancora un anno e mezzo e divenne lotta di Liberazione contro i tedeschi, che per rappresaglia avevano invaso l’Italia, e guerra civile, che vide contrapposti italiani contro italiani: da una parte i partigiani, che avevano scelto la strada della libertà, dall’altra i fascisti, che avevano scelto ancora la via dell’odio, della violenza gratuita e della sopraffazione a fianco dei nazisti. Si combatté in Italia e anche fuori, come testimoniano gli oltre 600.000 militari italiani internati in Germania dei quali la grande maggioranza preferì restare in lager piuttosto che arruolarsi con i fascisti e i nazisti. È la scelta che fece il vostro compaesano Giuseppe Zanotto, catturato dai tedeschi e resistente anche lui dietro i fili spinati di un campo di concentramento per prigionieri italiani. Lo avete commemorato pochi giorni fa, riportandone le spoglie in patria. Come ha detto Mario Rigoni Stern, anche quella fu Resistenza, quella di chi disse “No” al fascismo, a costo rimanere dietro i fili spinati e, come fu per Giuseppe, di pagare con la vita.

La lotta fu terribile anche in Italia e investì la nostra provincia: portò lutti, dolore, distruzione e miseria. Solo nella primavera del 1945, con l’avanzata degli Alleati nella pianura padana e la riscossa dei partigiani, che liberarono le città del nord, arrivò finalmente il giorno della Liberazione. Quel giorno le persone festeggiarono per strada, nelle piazze, si abbracciarono felici per la fine di un incubo. Da quel giorno iniziò un percorso nuovo per l’Italia, un cammino che l’avrebbe portata, il 2 giugno 1946, a scegliere la Repubblica come forma di governo e a darsi una Costituzione. Entrata in vigore il 1 gennaio 1948 (fra pochi mesi saranno settant’anni), la Costituzione è il frutto della collaborazione fra tutti i partiti antifascisti che avevano preso parte alla Resistenza. È un documento importantissimo, che tutti dovremmo conoscere, amare e difendere, specie i suoi primi dodici articoli. È grazie allo Costituzione se oggi noi possiamo esprimere liberamente il nostro pensiero, se, dunque, possiamo essere qui. 

Tuttavia, oggi che, per citare Primo Levi, viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, oggi che abbiamo un pasto caldo, oggi che siamo circondati da visi amici e che viviamo in pace, non possiamo dimenticare chi ha dato la vita per dare a noi tutto ciò. La libertà e la democrazia non sono conquiste perenni, ragazzi. Guardiamoci intorno: viviamo in tempi in cui riemergono sempre più forti idee e comportamenti di odio, di intolleranza, di rifiuto dell’altro perché straniero o perché diverso, per molti motivi. Pensiamo alle nostre vite quotidiane: l’arroganza al lavoro, il bullismo a scuola, la furbizia di chi imbroglia gli altri o lo Stato, la voce di chi grida “prima noi” o cose simili, il razzismo e l’odio contro chi è costretto a lasciare il proprio paese perché vittima della guerra o della miseria sono come un tarlo che divora a poco a poco la democrazia. E noi non possiamo permetterlo, come non possiamo permettere che vi sia chi ancora propone di riabilitare una dittatura feroce e liberticida com’è stato il fascismo. Spetta a ciascuno di noi vivere e attuare i principi di libertà, giustizia, uguaglianza, pace e rispetto sanciti dalla Costituzione nata dalla Resistenza. Solo così la nostra Italia sarà una nazione matura, responsabile e accogliente verso tutti.

Come ha scritto Mario Rigoni Stern, oggi «non è il tempo di riprendere in mano un’arma ma di non disarmare il cervello sì, e l’arma della ragione è più difficile da usare che non la violenza». Tocca a noi adulti e, ancor più, a voi ragazzi vigilare: innanzitutto conoscendo la storia, meditando che questo è veramente stato; in secondo luogo vivendo nel quotidiano i valori della Resistenza sanciti nella Costituzione; in terzo luogo analizzando le parole, proprie ed altrui, non fidandoci di chi ancora propone falsi valori permeati di razzismo, di divisione, di odio. Ne va del nostro futuro, e lo dobbiamo a loro: a Renzo, Enrico, Ettore, Alessandro, Emilio, Piero, Antonio e a tutti i partigiani e le partigiane che settantaquattro anni fa scelsero. E scelsero la parte giusta. 

Viva la Resistenza, viva l’Italia libera, viva la Costituzione!

venerdì 7 luglio 2017

Collaborazione con "Quaderni Vicentini"

Cari amici lettori,
un brevissimo post per segnalare che ho iniziato a collaborare con la rivista bimestrale "Quaderni Vicentini", rivista che, come si legge nel sito http://quadernivicentini.it/, ha come obiettivo «l'analisi della realtà contemporanea e storica: cronaca, politica, cultura». 

Nel numero 2/2017 potrete trovare un racconto scritto qualche tempo fa, ma a cui tengo molto, Il concerto, di cui riporto l'incipit in calce a queste righe.

"Quaderni Vicentini" si può trovare nelle edicole e librerie di Vicenza città e provincia e anche on-line nei siti dei distributori maggiori. Qui potete reperire informazioni: http://quadernivicentini.it/rivenditori/.

In alternativa contattatemi attraverso il modulo di contatto a fianco.



Il concerto

Non era un buon periodo, questo era poco ma sicuro. Ogni sera, tornando dal lavoro, questa piccola e insieme irritante verità si affacciava nella mente di Giacinto Masiero. Piccola e irritante come una scheggia di legno, una sgrezénda avrebbe detto lui, che era veneto, anzi vicentino, e sapeva che con le sgrezénde c’è poco da scherzare: subdole, ti si infilano sotto la pelle in un attimo, le senti appena o non le senti proprio, e poi, quando te ne accorgi, è già troppo tardi. Allora arriva una sensazione che non è nemmeno dolore, che ha in sé dello sberleffo bello e buono. Solo un ago sottile, opportunamente sterilizzato sulla fiamma del fornello, potrà avere ragione, ma non è detto, della sgrezénda.
Forse però quel pensiero non era neppure simile ad una sgrezénda, pensava Giacinto Masiero ogni sera, infilando la macchina nel garage di casa sua. Perché una sgrezénda si può cavar via in qualche maniera. Quel pensiero invece non si poteva cavare, era fisso come un chiodo da muro o, peggio ancora, come un fischer da muro. Per estrarlo si sarebbe dovuto scavare, magari addirittura buttar giù tutto e poi dare di nuovo le malte. Invece, le uniche cose che Giacinto Masiero faceva erano scrollare la testa e sbuffare in silenzio. E bestemmiare, anche, ma piano, tra i denti: bestemmie sussurrate che sua moglie fingeva di scambiare per preghiere.
Insomma, buttava male per lui. Pazienza per il lavoro, il suo lavoro di tornitore che per tanti anni era stato soltanto cartellino-otto ore, cartellino-casa e ora invece andava e veniva tagliato dalla cassa integrazione a rotazione; pazienza anche per la sua vita coniugale, non del tutto piatta ma, anche nei brevi attimi di una notte rubata, controllata e prevedibile. Del resto, e la schiena, e la prostata che cominciava a farsi sentire, e la menopausa di sua moglie che le metteva spesso e volentieri la voglia solo per toglierla in quattro e quattr’otto… tutto contribuiva, ma pazienza.
Pazienza, infine, che suo figlio si facesse poco vedere e sentire ma studiare a Milano, dove pure riusciva a mantenersi quasi da sé, era una gran cosa per lui. Anzi, non solo per lui, per tutta la famiglia. Sarebbe stato il primo dottore ad arrivare in casa! E per Giacinto Masiero questa era una soddisfazione bella e buona, sufficiente a fargli superare tanti momenti di scoramento. Pazienza dunque, sempre pazienza. Ma che adesso anche i vicini di casa si fossero messi a piantar rogne riguardo ai confini del terreno dietro casa, questo era troppo anche per il carattere remissivo di Giacinto Masiero. Il fatto poi che “i vicini” fossero in realtà suo fratello, con cui condivideva, oltre al cognome , anche uno dei muri portanti della casa, non semplificava le cose. Anzi, le rendeva più intricate e fastidiose da risolvere.
Dopotutto non era stato lui a segnare i confini, quella volta! L’avevano fatto assieme e allora tutto era andato bene. Perché adesso suo fratello tirava fuori quelle storie? Era in pensione: non poteva godersi il riposo senza rompere le balle a chi invece, ringraziando il governo ladro, avrebbe dovuto lavorare fino a perdere i denti e il resto? Forse era per quest’ultima spina, forse tutto l’insieme, chissà. Giacinto Masiero scrollava ogni sera la testa mentre apriva la porta di casa. No, non era per niente un bel periodo. Di ciò poteva star sicuro, pensava dondolando un poco la testa...





sabato 24 giugno 2017

Ricordando Luigi Meneghello

Il 26 giugno 2017 saranno dieci anni dalla scomparsa di Luigi Meneghello. 
Partigiano, intellettuale, scrittore, acuto osservatore della vita italiana della seconda metà del Novecento, Meneghello era un nome pressoché sconosciuto una decina d'anni fa. Ricordo le conversazioni con amici e compagni di Università a Padova (si era intorno al 2010) su questa grande figura della nostra letteratura. 
- Meneghello chi? 
Era questa la risposta più frequente quando citavo qualche opera di quel da Malo. Ricordo che consigliavo soprattutto la lettura di Fiori italiani allora, romanzo-saggio (come sempre in Meneghello i generi sfumano e non sono buoni per spiegare i suoi testi) sull'educazione in cui una sezione non trascurabile era dedicata alla descrizione di uomini e ambienti della facoltà di Lettere patavina dei primi anni Quaranta. Nessuno conosceva il libro. 
Altre volte, parlando con vicentini di media cultura, la risposta alla domanda "Hai presente Meneghello, lo scrittore?" era ancora più disarmante:
- Ah, queo che scrive in dialèto!

A dieci anni dalla scomparsa, la situazione è fortunatamente cambiata. Molte in questo decennio sono state le occasioni per riscoprire Luigi Meneghello e le sue opere, e non solo in ambito accademico: saggi, convegni, incontri di lettura, spettacoli teatrali e altre iniziative hanno lavorato e tuttora lavorano per diffondere il pensiero e le opere di un autore che va ben oltre i confini angusti del regionalismo veneto. Fra le varie istituzioni impegnate a riscoprire Meneghello, come non ricordare l'Associazione culturale Luigi Meneghello di Malo? Il gruppo, guidato dal suo infaticabile presidente, organizza serate di lettura, incontri, convegni e molto altro ancora: non c'è anniversario o data legati all'autore che non vengano ricordati con appuntamenti e iniziative sempre di valore. 
Per informazioni basta dare un'occhiata al sito http://www.luigimeneghello.org/

Luigi Meneghello con la moglie Katia Bleier
Altro gruppo che vorrei ricordare è l'Associazione Formalit, che riunisce studenti e giovani studiosi dell'ambiente universitario padovano e che organizza incontri con le scuole per far conoscere la figura e le opere di Meneghello. 
Ecco il loro sito: https://formalit.it/

La scuola, appunto. Anche la scuola sembra aver recepito l'importanza di Meneghello, inserito nel canone degli autori suggeriti dalle Indicazioni nazionali per i licei del 2010. Che poi sia possibile realmente affrontare lo studio del Nostro, come di molti altri nomi suggeriti, con quattro ore partendo da Leopardi è altra questione. Intanto c'è, ed è importante che ci sia.

A quanti mi hanno chiesto e ancora mi chiedono con quale libro iniziare a conoscere l'opera di Luigi Meneghello, di solito rispondo citando I piccoli maestri, testo sull'esperienza resistenziale. È un libro (evito di chiamarlo romanzo) che ha già tutte le costanti delle opere maggiori, come ha ben evidenziato Maria Corti: la presenza di un 'io' e di un narratore che si rivede a distanza; la contrapposizione fra culture, quella intellettuale e quella popolare, e l'ironia sprigionata dal contatto fra le due che smorza ogni minimo sussulto di retorica; il mondo della memoria da cui Meneghello attinge sempre, con arguzia e ironia; il senso di coralità dell'opera, il suo rappresentare un gruppo ristretto in relazione ad un più vasto gruppo sociale; infine, la funzione basilare del linguaggio e, più precisamente, del plurilinguismo. Il tutto in un'opera che rilegge l'esperienza della resistenza in chiave antitrionfalistica e antiretorica.

Poi, presa familiarità con la scrittura raffinatissima del Nostro, suggerisco di passare alla materia di Malo e ai libri che la racchiudono, Libera nos a malo e Pomo Pero.  Non sarà un salto indifferente: Meneghello è un autore difficile, che non viene incontro al lettore. Occorreranno pazienza e dedizione, specie per chi non è vicentino, o veneto, e non ha qualche rudimento di cultura classica e cattolica, ma è un'esperienza che vale la pena di fare. Si scoprirà un universo meraviglioso e magico, il cuore pulsante di tutto ciò che dalla penna (sarebbe più corretto scrivere "dai pennini", giaccché con quelli scriveva Meneghello) dell'autore è uscito per finire sulla carta. 

Infine, le opere sul dopoguerra, sulla militanza di Meneghello nel Partito d'Azione, sul «prisma del dopoguerra» e sul «dispatrio» in Inghilterra: Bau sète e Il dispatrio. Importante è pure il già citato Fiori italiani, in cui il lettore dei Piccoli maestri ritroverà, nell'ultimo capitolo, la straordinaria figura di Toni Giuriolo, il grande vero maestro del giovane Luigi. Per gli appassionati poi potranno esserci i saggi (Jura, La materia di Reading, il gustosissimo Maredè maredè sul dialetto vicentino) e i volumi delle Carte
Ecco, dunque, qualche consiglio di lettura per l'estate. Poi, in una giornata magari meno calda delle altre, il lettore potrà fare una capatina a Malo, passeggiare lungo il Liston  e salire sul colle di santa Libera. Da sotto il monumento ai caduti, quello dell'episodio dei brombóli, guarderà verso i monti celesti, l'orlo alto e lungo dell'Altipiano. Chissà, magari proverà anche lui la «gioia somma e perfetta, astratta dal tempo [...] come fuori della portata della morte»...







domenica 21 maggio 2017

Parole parole parole

Parole parole parole... 

Tutti almeno una volta abbiamo ascoltato, anche solo di sfuggita o per caso, la celebre canzone di Mina Parole parole. Il ritornello di questa canzone mi è tornato in mente in questi giorni, lavorando alle ultime prove di un piccolo reading teatrale portato in scena nella scuola in cui insegno. Il titolo del lavoro - "Come fiocchi di neve d'inverno" -  riprendeva alcuni versi dell'Iliade, un passo nel quale si fronteggiano a parole Menelao e Odisseo. 
Gli Achei sono in assemblea e quando Menelao prende la parola parla con scioltezza, dicendo poche cose ma in modo sonoro poiché <<non era prolisso>>; quando è Odisseo a reggere lo scettro e ad avere quindi il turno di parola, se ne sta in piedi a lungo, guardando a terra, e a prima vista nessuno si farebbe avanti per ammirarlo.

Ma quando emetteva dal petto la sua voce robusta
e le parole, simili ai fiocchi di neve d'inverno,
allora nessun altro mortale avrebbe sfidato Odisseo...
                                                    (Iliade, III, vv. 221-224)

In Omero Odisseo è l'emblema della parola, una parola ammaliante, pronunciata con abilità, capace di trascinare gli altri e, quindi, di modificare la realtà. In tal senso essa può essere ambigua: se usata con malizia, la parola può ingannare, può distogliere dal vero, dal giusto, dall'onesto. Essa è dunque un'arma pericolosa. Lo sostiene anche il sofista Gorgia, vissuto fra il V e il IV sec. a.C., nel suo Encomio di Elena, un testo in cui egli si propone di difendere la moglie di Menelao, accusata dal mito di essere stata la causa della sanguinosa guerra di Troia, scagionandola da ogni imputazione. Uno dei punti salienti del discorso è proprio quello in cui l'autore sostiene che se Elena fu persuasa da Paride a seguirlo, e lo fu per mezzo delle parole, <<non fu colpevole ma sventurata>>. Le parole infatti, scrive ancora Gorgia, altro non sono se non un pharmakon, cioè 'medicina' ma anche 'veleno', capaci tanto di purificare quanto di stregare l'anima di chi le ascolta.

Cose del passato? Cose "da scuola"? Cose inutili nel nostro piccolo mondo finalmente in ripresa economica? Forse, per qualcuno. Ma proviamo a gettare uno sguardo alla cronaca: accendiamo il televisore o il cellulare o l'i-pad, sfogliamo le pagine di un giornale e riflettiamo. Quante parole vengono gettate ogni giorno nel mondo reale e nel tritacarne della rete? Fra queste, quante parole oneste, quante malevole? Il dibattito sui vaccini, le polemiche che ogni giorno la politica ci porta, i commenti ad ogni più diversa notizia circolante sui social sono condotti attraverso parole. Come riconoscere quelle oneste? Come soppesarne i contenuti? Come capire l'autorevolezza o la malafede di chi le pronuncia? Questa la sfida odierna. Scriveva Gian Luigi Beccaria all'inizio di un suo saggio uscito quasi trent'anni fa:

<<Dalla nascita alla morte, ogni giorno viviamo in un oceano di parole. Poche spesso sono nostre, veramente nostre. Ma una valanga le altre. Viviamo comunque o sbalestrati, o invece padroni, come pesci nell'acqua di questo mare. Ci muoviamo rapidi o impacciati. Inconsapevoli, respiriamo la lingua come l’aria, la produciamo come un atto fisiologico naturale. Raramente ci pensiamo su. Eppure la parola è uno dei più potenti mezzi che abbiamo a disposizione per capire, per convincere; per avvicinarci di più a chi ci sta vicino, per parlare con un amico, i propri cari, per capire ciò che gli altri ci dicono, che sentiamo o che leggiamo sui giornali e sui libri, per convincere, infine, chi ci sta a sentire che quanto diciamo è forse giusto, buono, utile>>.
(Gian Luigi Beccaria, Italiano. Antico e Nuovo, garzanti, Milano 1988, p. 7)

Naturalmente per poter scegliere, distinguere, soppesare le parole altrui è necessario innanzitutto ascoltare. e per ascoltare dobbiamo fare silenzio in noi, tacitando lo strepito; dobbiamo "disconnetterci", per usare un termine ormai entrato nel linguaggio comune. Dal silenzio nasceranno le domande e, forse, anche le parole. Quelle buone.

domenica 19 febbraio 2017

Riscoprendo Marziale

In questi giorni sto ristudiando Marziale, poeta latino del I secolo d.C. Una decina di giorni fa il ministero ha divulgato le cifre delle preiscrizioni alle superiori: i licei tengono e sono anzi in crescita, anche se il perché sarebbe da indagare a fondo, possibilmente senza preconcetti e ideologie varie. Ma non è questo il mio pensiero oggi; oggi, come dicevo, la mente corre a Marziale.

Nato a Bilbilis, in Spagna, intorno al 40 d.C., nel 64 si sposta a Roma, sotto Nerone imperatore. L'Urbe, caput mundi, è il luogo più adatto per tentare la sorte e raggiungere la sospirata fama, tanto più che in quel periodo alcuni fra i massimi intellettuali sono di origine spagnola, in primis Seneca filosofo e suo nipote, il poeta Lucano.
Stringe amicizie in alto loco, ma il suo entusiasmo svanirà in breve tempo: nel 65 l'imperatore scopre una congiura e la reprime nel sangue; uno dopo l'altro muoiono amici e protettori del poeta giunto dalla Spagna per fare fortuna. Marziale si adatta così alla vita del cliens, istituzione del mondo romano che legava un uomo libero ad un patronus: il cliens era a servizio del protettore, lo omaggiava quotidianamente, lo accompagnava nella vita pubblica e sbrigava per suo conto azioni di vario tipo, ricevendo in cambio una sportula, elargizione di cibo col tempo divenuta una piccola somma di denaro.
Marziale fa questa vita fino al 98, anno in cui decide di tornare nella città natale, dove muore intorno al 104 d.C. Una vita agra quella di Marziale, raccontata in parte da lui stesso nei suoi epigrammi. 

Ed è di questi epigrammi che vorrei scrivere, anzi, di uno in particolare. Spesso si ricorda Marziale per i suoi lazzi più o meno osceni, per le sue scurrilità, talora per qualche sua sagace sententia. Complice il genere letterario che coltivò tutta la vita, l'epigramma appunto, Marziale fece della brevità, dell'arguzia, dell'ironia pungente dei marchi di fabbrica e le rese formidabili strumenti conoscitivi verso un mondo popolato da individui di ogni tipo, dai loro vizi (spesso) e dalle loro virtù (talvolta). Hominem pagina nostra sapit, la nostra pagina sa di uomo/umanità (X, 4) rivendica  in un suo componimento il poeta, che altrove rincara la dose contro coloro che disprezzano la sua poesia e citano la lascivia dei suoi carmi per screditarlo: lasciva est nobis pagina, vita proba, scabrosa è la nostra pagina, la vita però è retta (I, 4).

Sto proponendo Marziale ad una mia classe di liceo. Mi sembra piaccia: è bello vedere studenti diciannovenni col pensiero fisso all'Esame di Stato e alle loro vite ridere e sorridere di fronte a versi scritti due millenni fa, riflettere, fare paragoni. Il tutto, absit iniuria verbis, con roba che a detta di qualcuno non serve a niente! Oggi vorrei condividere l'emozione provata, amici lettori, a ritrovare dopo anni un epigramma del nostro poeta. Si tratta di un componimento funebre, argomento che nei quindici libri di epigrammi composti da Marziale è presente, seppur in parte non maggioritaria. La tematica si lega alle origini stesse del genere letterario che Marziale coltiva e tuttavia non c'è qui soltanto un topos letterario o la mera fedeltà ad un modello precostituito.

Il testo, numero 34 del V libro, è dedicato a Erotion, una piccola schiava morta in tenera età. Offro il testo latino e una mia ipotesi di traduzione.

[Epigrammi V 34]
Hanc tibi, Fronto pater, genetrix Flaccilla, puellam
oscula commendo deliciasque meas,
parvola ne nigras horrescat Erotion umbras
oraque Tartarei prodigiosa canis.
Inpletura fuit sextae modo frigora brumae,
vixisset totidem ni minus illa dies.
Inter tam veteres ludat lasciva patronos
et nomen blaeso garriat ore meum.
Mollia non rigidus caespes tegat ossa nec illi,
terra, gravis fueris: non fuit illa tibi.

A te padre Frontone, a te madre Flaccilla, affido questa bambina, bacini miei e mio amore, affinché la piccola Erotion non si spaventi per le nere ombre e per le bocche mostruose del cane infernale. Avrebbe compiuto il sesto inverno se fosse vissuta ancora per almeno sei giorni. Che possa giocare felice tra i vecchi protettori e con bocca balbettante chiami il mio nome. Un non rigido/irto cespuglio/tumulo copra le sue tenere ossa e tu, terra, non esserle pesante: non lo fu lei con te.

Non credo ci sia bisogno di commentare: milleottocento anni prima di Edgar Lee Masters, questa piccola iscrizione ci dona uno spaccato di vita e, insieme di poesia fra le più toccanti di sempre. A voi, cari lettori, ogni altra riflessione, su Marziale, sulla poesia, sulla vita. Per me la piccola speranza che se qualcuno, sua sponte e seguendo le proprie inclinazioni, continua ad iscriversi al liceo, testi come quello proposto saranno ancora letti, studiati, amati.  Buona domenica.










domenica 29 gennaio 2017

"Il presente non basta: la lezione del latino" di Ivano Dionigi

Il presente non basta. La lezione del latino. È questo il titolo di un libro di Ivano Dionigi, ex rettore dell'Alma Mater di Bologna e insigne latinista,  uscito lo scorso settembre per Mondadori. Si tratta del terzo saggio in pochi mesi dedicato ad una lingua antica, dopo Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile di Nicola Gardini e dopo, o meglio, quasi contemporaneamente a La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco di Andrea Marcolongo.

Da insegnante e da classicista, per quanto con un percorso per certi aspetti ibrido e aperto a mille interessi, seguo sempre con attenzione il dibattito sull'insegnamento del greco e del latino: due lingue e, insieme, due culture, due visioni del mondo che la scuola italiana offre ancora, nonostante mille attacchi, ai propri cittadini in formazione. Non voglio entrare nel merito dell'eterno dibattito, che troppo spesso si riduce a domande mal poste (vedi quella sull'utilità) e prese di posizione ideologiche fondate sulla miopia o, peggio, sulla dabbenaggine; oggi voglio solo condividere con voi, amici lettori,alcune riflessioni sul primo dei tre libri citati.

Veniamo dunque al lavoro di Ivano Dionigi. È innanzitutto un libro che, come del resto fanno anche i saggi di Gardini e Marcolongo, parte dall'esperienza diretta: forte di una vita dedicata allo studio del latino, Dionigi ci guida alla sua scoperta attraverso un personale punto di vista e che tuttavia si propone di abbracciare i capisaldi dell'eredità che la lingua latina ha lasciato all'Europa. Questo legame con la memoria e con l'eredità del passato, evidente sin dal titolo, viene ribadito costantemente sin dalle prime pagine del saggio e dalle tre citazioni  - di Goethe, Eliot, Mahler - poste in esergo. Si tratta, scrive Dionigi nel Prologo, di un'eredità da conquistare dato che essa, che lo si accetti o meno, fa parte di noi ma non è data automaticamente. 

Segue un brevissimo capitolo, Tre domande, provocatorio, in cui l'autore introduce i tre punti fondamentali che si propone di dimostrare nelle pagine successive, la triplice eredità <<di cui il latino ci mette a parte: il primato della parola, la centralità del tempo, la nobiltà della politica>>. 
Dopo un capitolo in cui Dionigi riprende l'antica (ma forse nemmeno troppo) querelle sul latino come lingua di destra o di sinistra, il saggio procede lungo gli assi delineati in precedenza. È questa la parte più bella, partecipe e viva del libro: attraverso l'esperienza di un amore vissuto nel profondo e grazie ad una profonda dottrina, Dionigi espone i tre concetti - primato della parola, centralità del tempo, nobiltà della politica - riferendosi ai grandi autori che li hanno resi immortali. Ecco spuntare allora nomi celebri, da Lucrezio a Cicerone, da Virgilio a Seneca a Orazio. Emergono aspetti noti e talora meno noti: un gusto per un giovane insegnante alla ricerca di spunti e particolari poco noti!

Sebbene rivolto alla lingua latina, il libro di Dionigi resta però sempre ben piantato nel presente, come conferma soprattutto la seconda parte del libro. Dopo un capitolo dedicato alla storia del latino come lingua europea, quindi ben oltre l'antichità, Dionigi si concentra sull'oggi, presentando alcune caratteristiche del latino valide nella società odierna, prima fra tutti la brevitas: nell'era di Twitter poche lingue come il latino possono offrire tanta concentrazione semantica in un numero tanto ridotto di parole. Il pregio di questo capitolo è, a mio avviso di focalizzare ancora una volta l'attenzione su questo aspetto del latino; più personale e meno efficace risulta l'ipotesi di legare il latino a Twitter e, più in generale, alla comunicazione odierna.
Infine, nel capitolo conclusivo, l'autore si rivolge alla scuola, proponendo una sua "ricetta" per l'insegnamento del latino. La tesi centrale del capitolo è che il latino, come tutti i saperi umanistici, non può e non deve essere contrapposto alle discipline scientifiche: una scuola all'insegna dell'et et, non dell'aut aut è quella che propone Dionigi. Tesi coraggiosa, che pone questioni profonde di riorganizzazione dell'insegnamento ma anche precise scelte politiche, legate all'idea di scuola del futuro. Scrive infatti Dionigi che la scuola del domani sarà possibile <<con provvedimenti seri e investimenti veri: dilatando gli orari scolastici, abolendo i compiti a casa, pagando adeguatamente gli insegnanti>>. Queste belle parole saranno recepite da qualcuno de quei de sora, come si dice dalle mie parti? Ai posteri l'ardua sentenza...

Un ultimo appunto sullo stile: libro molto utile e nel complesso ben scritto per giovani insegnanti o comunque per persone con una buona cultura classica, lo è meno per gli studenti e per i neofiti allo studio del latino, a causa di certe parti più tecniche, di una certa concentrazione di contenuti e dei numerosi riferimenti a testi ed autori non sempre noti a chi non è del mestiere.