Ieri sera, di ritorno da una serata di musica e festa, mentre rientravo in casa, mi sono accorto che in cielo brillavano le stelle: una magnifica volta stellata invernale, limpida e che invitava alla contemplazione. Non ho sbagliato verbo e non credo di esagerare. Per i Romani il verbo contemplo aveva in origine proprio il significato di scrutare con attenzione il cielo entro uno spazio sacro denominato, appunto, templum. Il contemplare, che anche per noi si lega alla sfera del sacro, era perciò legato al cielo, all'osservazione attenta e silenziosa. E ieri sera era silenzio, la temperatura vicina allo zero, l'aria ferma. Ricordavo, uscendo in cortile, l'attacco di una celebre canta natalizia, testo di Carlo Geminiani e musica di Bepi De Marzi:
Le stelle in cielo passan piano piano
e nelle case scure ancor se sogna...
Potete ascoltarla qui nella prima incisione realizzata dal M. De Marzi coi suoi Crodaioli. Certo, tornando indietro nel tempo della letteratura, altri testi si potrebbero citare. Proprio ora me ne torna in mente un altro:
Dolce e chiara è la notte e senza vento...
Inizia così anche La sera del dì di festa di Leopardi, poeta e filosofo che, paradossalmente, più di tanti "mistici" sapeva contemplare lo spettacolo della notte.
Ieri sera, però, mentre mi distendevo sulla superficie scomoda di una panchina posta in cortile, in bocca la pipa e in testa un berretto di lana, non ho pensato a Leopardi ma a Dante. Osservavo le stelle, le più vicine e luminose e poi, dopo che lo sguardo si era abituato all'oscurità, anche le più distanti. Con la parola 'stelle', si sa, termina ogni cantica della Commedia dantesca. Ieri sera, contemplando il cielo, ripetendo come un bambino i versi finali dei tre canti trentatreesimi, ho capito il perché di questa scelta. Non chiedetemi di spiegarlo, non è stato un ragionamento razionale; piuttosto si è trattato di un'intuizione. Al di là di manuali, trattati, studi, saggi, al di là, e di gran lunga, da tutto questo fiume di parole, nel silenzio di una notte di inizio inverno ho capito la bellezza di quei versi. Erano come musica, e davano pace.
Nel frattempo avevo acceso la pipa, nuvolette di fumo si alzavano verso il cielo e si perdevano nell'aria silenziosa. Sono stati mesi impegnativi gli ultimi dodici. Un anno fa scrivevo come un pazzo la tesi di laurea, sei mesi fa studiavo per il TFA, gli "Hunger games nostrani", come li definisco, non penso del tutto a torto. Poi, da settembre, la scuola, le soddisfazioni, la ansie, le fatiche, le gioie, la responsabilità di un lavoro estremamente appassionante e, al contempo, di un ruolo estremamente impegnativo. A novembre, infine, le prove scritte e orali degli Hunger games. Mesi impegnativi e che, tuttavia, sotto il cielo stellato sfumavano in quel momento come le nuvolette biancastre che sbuffavo verso l'alto.
So di dire ovvietà, eppure davvero dovremmo tornare più spesso a contemplare il cielo. Fermarci, alzare la testa, cambiare direzione allo sguardo, specie in questo periodo di parossissmi luminosi a buon mercato. A cambiare prospettiva le cose riacquistano il giusto senso, la giusta misura. E senza bisogno di tante spiegazioni. Così, se prima di leggere Dante o Leopardi o qualsiasi altro autore ci immergessimo in tanta immensità, nessuno porrebbe più la ridicola assurda domanda: "A cosa serve studiare queste cose?". Perdonate la lieve vis polemica, mi giustifico dietro al fatto che faceva parte dei pensieri di ieri sera...
L'anno scorso auguravo un Natale di silenzio. Quest'anno a tutti voi, amici lettori, auguro un Natale di contemplazione. Non di luci al neon, di stelle che brillano a intermittenza o di luccichii accompagnati da musiche metalliche. Di ciò che veramente conta, magari passando attraverso la contemplazione reale di quel cielo stellato che da millenni scrutiamo alla ricerca di risposte e dal quale riceviamo, il più delle volte, soltanto nuove domande.